Questo è un omaggio ad un grande amico: Simone, qui con il suo primogenito Andrea sui prati di Lepreno.
Ci siamo conosciuti alla fine degli anni sessanta ai tempi dell’università. Ci vedevamo alle 7,19 sul mitico treno che trasportava tutti gli universitari bergamaschi alle lezioni di Milano, dove aspiranti commercialisti, ingegneri, avvocati ed insegnanti, goliardicamente intrecciavano amicizie ed amori che sarebbero durati una vita. Simone era il primo di cinque fratelli, tutti maschi, di Verdello. Una famiglia bergamasca di saldi valori: il papà faceva il sarto e Simone insieme a suo fratello Gianangelo, anche lui un grande amico, insegnava alle elementari e frequentava la facoltà di Magistero alla Cattolica. Era nipote di don Luigi Chiodi, eminente studioso e autorevole direttore della biblioteca civica di Bergamo Alta.
Era sereno ed equilibrato, dotato di un grande senso dell’ironia. Nei decenni di un rapporto sempre ravvivato dalla reciproca simpatia, ci siamo frequentati specialmente dopo il suo matrimonio con Rosalba, la sua splendida moglie che gli ha regalato Andrea, Paolo e Marco.
Ricordo una domenica alla baita di Lepreno, con il suo fuoristrada Toyota, i bimbi e gli amici in quel solitario rifugio senza luce elettrica e con l’acqua derivata con una condotta artigianale dal torrente vicino, il suo orgoglio per lo splendido cane Akita, l’assistenza continua ai suoceri invalidi, l’impegno per i figli ed i progetti per la casa nuova.
Una vita intensa e felice, interrotta improvvisamente da un tumore incurabile.
Ricordo di essere andato a trovarlo in ospedale dopo l’inutile operazione chirurgica, e nella stanza era circondato dai suoi tanti amici che, anche se disperati, lo rassicuravano e incoraggiavano. Ma quando lui mi ha fissato con un muto interrogativo non sono riuscito a fingere e gli ho detto: sei grave! Con lo sguardo senza parlare mi ha fatto capire: lo so!
Purtroppo la notte successiva era in coma e fuori dalla stanza insieme ai suoi fratelli ho atteso angosciato la fine di quella sofferenza. Non sapevo cosa dire nè cosa fare, ma Rosalba ci ha lasciati ammirati per la forza d’animo con cui ha affrontato la tragedia e per la serena determinazione con la quale ha guidato i suoi ragazzi negli anni successivi.
Ormai sono passati molti anni, ma il ricordo ed il rimpianto sono sempre intensi; unica piccola consolazione la considerazione di Menandro:
muore giovane chi è amato dagli Dei.
Ciao.......